APPROFONDIMENTO

IL MONACHESIMO FEMMINILE NEL MEDIOEVO

Nel mondo occidentale le donne, nell’ambito della vita monastica, hanno lasciato poche tracce del loro cammino, vivendo per lo più nel pieno isolamento religioso, in zone di clausura. Questa loro esperienza è rimasta oscura agli occhi degli studiosi a causa dell’assenza di fonti. Tuttavia ciò che è stato recuperato grazie a testimonianze di carattere dottrinario e letterario del periodo alto-medievale, presso edifici monastici e istituti di clausura, ha reso possibile in parte registrare notizie riguardanti privilegi e consuetudini di vita all’interno dei monasteri, rapporti tra le consorelle e altri aspetti quotidiani della vita monastica. I monasteri femminili nell’alto medioevo forniscono non solo preziose notizie storiche, ma anche informazioni riguardo ad argomenti attuali come quello della funzione della donna nella chiesa.

Qual era, dunque, la condizione femminile in quei secoli?

La donna si configura, nella società medievale, come una soggetto priva di qualsiasi potere economico, socialmente considerata solo in previsione del matrimonio, non di rado imposto, e della procreazione. Risulta più facile, a questo punto, cogliere l’importanza di un’istituzione come il monachesimo: la donna trova nell’ingresso in monastero la possibilità di mutare la propria condizione sociale, di rivendicare la propria libertà con una marcata visibilità ecclesiale e sociale, sottraendosi al suo essere puramente “funzionale” all’uomo. Ma ancor più significativa e attuale è la dimensione “culturale” di una vita comunitaria disciplinata all’interno degli ampi spazi monastici: una societas di donne che gestiscono tempi, spazi, lavori, economie in un’autonomia praticamente esente da qualsiasi interferenza esterna, una societas di cui possono entrare a far parte a pieno titolo donne già schiave o libere, ignoranti o colte, nobili o popolane, ricche o povere, una societas la cui autorità – la badessa – è eletta liberamente con il voto di tutte le consorelle mediante quello che oggi chiameremmo un “suffragio diretto e universale”. In sintesi un ambito culturale ricco, difficilmente riscontrabile altrove nella società medievale. I confini settentrionali e meridionali del feudo sono rappresentati rispettivamente dal Fredane e dall’Ofanto; ad ovest vi sono le terre di Nusco (dei Tivilla) e quelle di Torella (dei Saraceno), mentre ad est vi è la contea dei Balvano, che comprende parte dell’attuale territorio lionese. Dopo il 1135 le notizie su Monticchio si diradarono e, per tutto il periodo normanno-svevo, ci vengono fornite dai documenti solo poche notizie relative ai feudatari del tempo. Nel 1255 Simone, figlio di Ruggero, ottenne la signoria del castello, seguito poi da Enrico ed Adenolfo. Gli anni tra il 1266 ed il 1268 vedono l’esordio della dominazione angioina. Uno dei primi provvedimenti del nuovo governo fu il censimento dei “focolari”. Ogni università (nome con il quale venivano chiamate le comunità locali) è tenuta a dichiarare di quante famiglie fosse composta per motivi fiscali. Del periodo angioino ci sono pervenute alcune “cedole della sovvenzione generale”, ovvero dichiarazioni delle imposte che le università pagavano al re. Alcune categorie di persone sono esentate dal pagamento: i nobili, i membri del clero, le donne, gli anziani soli, le famiglie numerose ed i nullatenenti. In base agli studi di storici medievisti è stato possibile calcolare il numero delle famiglie che abitano l’area di Monticchio: 600-650 persone, non tenendo conto delle suore e dei monaci del Goleto. Nel 1279 a Monticchio si verifica un fatto clamoroso: una ribellione contro il feudatario da parte dell’università. È possibile apprendere le dinamiche dei fatti attraverso i Registri Angioini di Scandone. In quell’anno è signore di Monticchio un tale Enrico; tra lui ed i suoi vassalli è in atto una controversia, in quanto egli li accusava di non volergli pagare ciò che gli era dovuto. Dopo un tentativo di aggressione, i vassalli privano il signore del potere, istituendo un “governo popolare”. I documenti superstiti non esplicitano l’esito della rivolta, ma è possibile intuirlo dal fatto che Enrico rimane signore di Monticchio almeno fino al 1301. Gli succede il figlio Guglielmo, ricordato per questioni di tasse e per un diverbio avvenuto tra le mura del Goleto riguardante l’elezione della nuova badessa. L’ultimo feudatario di Monticchio fu il figlio di Guglielmo, Enrico (III), che gli subentra nel 1336. Qualche anno dopo prende parte alla guerra di Roberto D’Angiò contro gli Aragonesi. Da quel punto della storia in poi Monticchio viene incorporato nella contea di Sant’Angelo e, come appreso da un documento del 1413, il castello ed il borgo vengono abbandonati.